Un disastro che viene da lontano

Come in Sud Africa per il risultato sportivo.
Peggio che in Sud Africa per le aspettative iniziali.

Da una Nazionale reduce da un brillante secondo posto agli Europei ed una buona Confederation Cup, difatti, era lecito e congruo aspettarsi molto, ma molto di più.

Siamo usciti nel girone eliminatorio, perdendo contro Costa Rica ed Uruguay (due nazioni che per numero di abitanti non superano la Lombardia, come ha ricordato, stamane, il Direttore della Gazzetta dello Sport, Andrea Monti), ma soprattutto, non dando mai la sensazione di esserci con le gambe e con la testa.

Le statistiche, esemplificano in maniera corretta la disfatta azzurra: quattro tiri in porta in tre partite, di cui due goal contro l’Inghilterra nell’unica partita vinta del girone.

Un fallimento totale.

Nel “Day After” si è soliti trovare un alibi o fare autocritica.
Tra le due, la seconda sarebbe oggettivamente preferibile.

Bene, i nostri giocatori più rappresentativi, hanno deciso di buttare la croce della disfatta verso il più mediatico, controverso, enigmatico, Mario Balotelli.

Lo scrivente, non lo ha mai difeso sin dai tempi in cui militava nell’Inter per l’atteggiamento insolente e strafottente sul campo da gioco (non mi interessa e non ci dovrebbe interessare cosa combina fuori dal rettangolo verde) che si è chiaramente visto in tutte le squadre in cui ha militato successivamente.
Un certo Jose Mourinho nel 2009 affermava riguardo Mario Balotelli: “Vedrete che fra 5 anni ci staremo ancora chiedendo quando crescerà Balotelli”.

Punto, pelota.

Orbene, fuori dalla profezia mourinhana, mi sembra però fuori luogo incolpare il colored italiano, come hanno fatto trapelare compagni ed allenatore, solo perché non ha segnato il goal della potenziale svolta contro la Costa Rica o perché ieri non ha segnato nei soli 45 minuti a disposizione che gli ha concesso Prandelli.

Balotelli ha siglato il 50% dei goal realizzati dall’Italia in questo Mondiale.
Solo uno? Certo: su due però…
Vi chiedo: se non arrivava una palla che fosse una in area di rigore e la circolazione della stessa palla era di una lentezza esasperante, quasi da amichevole estiva, l’imputato Mario, cos’altro avrebbe potuto fare?
Lottare? Non lo ha fatto?
Non credo, onestamente. Quello che aveva in corpo, lo ha dato.
Il problema, semmai, è all’origine.
Che Balotelli sia un fuoriclasse lo hanno scritto solo i giornali, invogliati da qualche stravaganza dello stesso numero 9 o 45, se preferite.

Balotelli è un attaccante, ma non un grande attaccante.
Balotelli è un buon giocatore, ma non un campione.
Men che meno un fuoriclasse, di cui oggi, nel calcio mondiale, ne conto meno di dieci sulle dita.

Terminato il capitolo Balotelli e comprendendo che non è lui la chiave principale dei nostri problemi, andiamo alla sostanza della disamina per comprendere insieme come questa Italia è stata mal progettata.

Senza anima. Una squadra senza anima.

Negli sport di squadra, c’è una regola non scritta per vincere: una squadra deve essere un corpo unico.
A questa Italia è mancata la peculiarità imprescindibile per compiere qualsiasi impresa.
I nostri sembravano degli Schettino allo sbaraglio, navigavano nel mare della loro mediocrità tecnico-tattica.
Perché se è vero che il CT Prandelli ha le colpe principali di questo disastro, è altrettanto vero che la qualità media dei nostri giocatori, forse mai, come oggi, è stata così bassa.
Pensate ai terzini? Ci si è presentati ad un Mondiale con Abate, De Sciglio e Darmian (che tra l’altro è stato l’unico nelle tre partita ad aver mantenuto una qualità di rendimento accettabile).
Il nostro punto di forza della vigilia, il centrocampo, è stato rivoltato nelle tre partite come una camicia sgualcita da stirare.
Chiedo: perché non si è proseguito con l’asse che aveva demolito il centrocampo inglese, anche nelle restanti due partite?
E poi, abbiamo sviluppato negli ultimi anni una chiara identità di gioco, perché snaturarla nel momento decisivo?
Il Mondiale lo abbiamo perso contro la Costa Rica (nessun dubbio), ma anche ieri dovevamo fare molto di più.

Prandelli si è dimesso, da apprezzare perché in Italia non lo fa nessuno a fronte di risultati ancor più negativi e con lui il Presidente Abete.

Il fatto che lo abbiano fatto entrambi, nello stesso momento, stride, per via di congetture facilmente identificabili, ma tant’è.

La verità è che il problema vero non sono neanche le dimissioni del nostro tecnico, ma rivoluzionare o se preferite rottamare, tutto il sistema calcio, dalla federazione incapace di creare una classe dirigente all’altezza, alla Lega, sino all’ordinamento dei nostri stessi campionati, oggi non più competitivi.

Se non faremo ciò, troveremo sempre l’alibi che una volta si chiamerà Moreno, l’altra il morso di Suarez e l’altra ancora il caldo atroce.
I perdenti cercano gli alibi e se continueremo su quest’andazzo, non torneremo a vincere per molti anni: questo è chiaro.

Iniziamo, invece, un percorso di lungimiranza che possa permettere al Calcio italiano di ritrovare gli antichi splendori.
Un tempo, neanche troppo lontano, dettavamo legge in Europa e nel mondo: oggi ci ritroviamo ad annaspare e perdere contro una Costa Rica qualsiasi.

Siamo questi, accettiamolo con crudezza, ma per favore, iniziamo un progetto reale di rottamazione a trecentosessanta gradi.
Riformiamo il nostro calcio, ma facciamolo subito: ad andare sempre più verso il baratro si fa presto, a ricostruire serve molto più tempo e soprattutto, sono necessarie idee illuminanti.

Facciamolo anche per Ciro Esposito, morto nella notte in modo incredibile, solo per essere andato a Roma ad assistere alla partita della sua squadra del cuore. Una tragedia immane che dovrebbe far riflettere chi di dovere.
E mi riferisco allo Stato, non solo ai vertici del Calcio.

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